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Angelo STEFANINI 30 Ottobre 2002

Angelo Stefanini per anni medico in Uganda, ricercatore dell'Università di Bologna, e' esperto in sanità internazionale. Ha ricoperto il ruolo di responsabile dell’Organizzazione Mondiale della Sanita’ (OMS) per la Palestina.



Gerusalemme, 30 Ottobre 2002

Carissimo Contiero,
ti ricordo sempre intento a tenere lontano la vecchiaia. Insisti!
Io la sento arrivare negli acciacchi che come medico ho sempre sottovalutato negli altri, finché appunto non comincio a rendermi conto di quanta differenza possano fare nella vita di una persona che avanza con l’età.
Avrei bisogno di averti qui con me a discutere dei fatti che vedo e vivo e delle domande che questi fatti mi pongono. Domande che mi interrogano su quali posizioni morali assumere di fronte alle sofferenze inflitte da entrambe le parti di questa guerra sanguinosa. Una di queste domande è: “quale violenza è più grande, uccidere bambini palestinesi nel loro letto sganciando una bomba sulla stessa abitazione dove risiede un potenziale terrorista o ammazzare a sangue freddo un bambino ebreo e sua madre che lo stringe tra le braccia colpevoli di essersi insediati in una terra che non è loro? Esiste una equivalenza morale tra due atti che provengono entrambi da intenzioni ugualmente cattive e che violano la stessa legge morale (non uccidere)? È valida l’argomentazione di chi sostiene che nel secondo caso si tratta di un atto a sangue freddo mentre nel primo la morte del bambino è stata accidentale, un semplice “danno collaterale”? Ma chi ha sganciato la bomba sapeva di certo che anche le persone innocenti sarebbero morte! Da questo punto di vista non mi sembra poi tanto diverso dall’uccidere intenzionalmente.
Un tempo, quando le guerre venivano combattute all’arma bianca, il nemico era lì di fronte a noi e quindi l’uccidere era un fatto diretto e personale, guardando l’altro negli occhi. Anche chi spara con armi da fuoco e con carri armati può ancora vedere la sua vittima smembrate e sentire l’odore acre delle carni bruciate. Tutto questo è cambiato con l’avvento dell’aeronautica.
Cosa dire di chi manda altri in guerra? O di chi produce o commercia in armi da guerra? Fino al secolo scorso i generali guidavano le truppe dalle colline prospicenti il campo di battaglia. Oggi le cose sono diverse e sappiamo bene che si può uccidere anche da lontano, ma siamo poco inclini ad ammetterlo. In quanto elettori, abbiamo voce in capitolo: possiamo chiedere la morte di innocenti e i nostri politici ci ascoltano. Spesso siamo pronti a sostenere azioni militari che sappiamo con certezza condurranno alla morte di civili, donne e bambini. Ma lo facciamo con tutte le buone intenzioni (“rovesciare il regime dispotico di XY”). Oggigiorno non dobbiamo necessariamente sentirci dei bastardi per esserlo veramente.
Forse dovremmo considerare tutto ciò quando confrontiamo differenti azioni. La moralità che condanna la cattiveria dell’assassino e la brutalità del suo animo era appropriata una volta quando non era possibile uccidere senza essere brutali. Oggi possiamo uccidere anche sentendoci buoni e bravi. Dobbiamo però ammettere che quello che facciamo con piena conoscenza dei suoi effetti è cattivo quanto ciò che facciamo con l’intenzione diretta di raggiungere quegli effetti.
Uccidere bambini sganciando una bomba da un aereo quindi non è più giustificabile dell’uccidere da tre passi di distanza. Che il pilota si senta pieno di amore per i bambini e di non poter fare loro alcun male non è un bene. È un male. Significa infatti che questi assassini hanno trovato nei loro sentimenti un modo per credersi migliori di quello che in effetti sono. E questo vale non soltanto per il pilota o per il generale, ma anche per i semplici cittadini che vanno alle urne o sostengono una guerra, o per chi vende armi. Forse allora esiste veramente una equivalenza morale tra lo stile palestinese, israeliano o italiano di uccidere bambini. O cosa dire di chi uccide per resistere ad una oppressione: è il suo atto moralmente più giustificabile di chi uccide per opprimere e impossessarsi di territori altrui? Sia che siamo per la guerra contro Hitler o PolPot o chiediamo di intervenire militarmente contro un dittatore, siamo comunque a favore dell’uccisione di bambini innocenti. Perché quindi dovremmo condannare il palestinese che si fa esplodere uccidendo civili israeliani? Se la nostra auto difesa giustifica e approva la morte di bambini perché non dovrebbe essere lo stesso per i palestinesi oppressi da 35 anni?
Che cosa dovrebbero fare i Palestinesi? Marciare? Scioperare? Votare? Pregare? Negoziare? Dialogare? Tutto già provato. Affrontare l’esercito israeliano con delle fionde? Già fatto, non ha portato a niente. Aspettare che l’opinione pubblica mondiale cambi idea? L’opinione pubblica mondiale conta meno di niente senza l’opinione pubblica americana. I Palestinesi non possono fare affidamento su alternative teoriche e vaghe. Devono averne di reali. Noi possiamo ragionare astrattamente riguardo a possibili soluzioni. Loro non possono permetterselo. E ciascuno di loro fa i suoi calcoli, non soltanto per se stesso ma per tutti i suoi fratelli. Tutto quello che possono fare è contrapporsi ad Israele in tutti i modi che hanno a disposizione e concentrarsi in tutto ciò che può colpire l’oppressore.
Ed è questo che fanno. Un giovane palestinese pieno di esplosivo riesce a passare (non si sa come) la strettissima maglia di sicurezza israeliana. Il suo obbiettivo non è ammazzare bambini. È di ammazzare quante più gente possibile, più in fretta che può, far male ad Israele più che può. Poterne uscire sano e salvo è talmente improbabile che non lo considera nemmeno. Questo non è l’atto di un omicida patologico in preda ad allucinazioni. Non è l’atto di un cinico sequestratore in cerca di facili guadagni. Non è un atto di pulizia etnica (sono piuttosto i coloni israeliani che vogliono ripulire la Cisgiordania dagli arabi!). Non è nemmeno l’atto di qualcuno che cerca disperatamente di sopravvivere; esattamente il contrario. È un atto di resistenza contro uno stato che alla pace preferisce una continua e sanguinosa espansione territoriale. È l’atto di qualcuno che vuole che il suo popolo abbia una pur minima probabilità di sopravvivenza, qualcosa di meglio della pura disperazione. E la sua lotta porta con sé un messaggio semplice e salutare: meglio non spingere la gente troppo in là.
Con l’aria che tira in Italia pensi che potrei essere accusato di apologia di reato? Perdonami comunque il solito sfogo che almeno mi auguro non trovi farneticante.
Ci vediamo a Natale. Ti abbraccio.
Angelo


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